I testi di Enrico Pedrini e Flaminio Gualdoni pubblicati in occasione dellla mostra Claudio Costa, Prehistorie et Anhropologie, Galerie 1900- 2000 Paris ( 1990)
LA RICOSTRUZIONE DELL'UMANO
La seconda metà degli anni '60 vede il lento declino dello sviluppo economico che aveva caratterizzato gli anni intorno al 50-60 e il continuo logorarsi dell'immagine legata all'abbondanza delle risorse. L'eccessiva produzione dei mezzi e delle merci trova sempre meno sbocco commerciale, mentre il deteriorarsi del rapporto occupazione/disoccupazione con il consequente ribasso del potere di acquisto delle classi meno abbienti, tolgono fiducia alla rappresentazione del futuro La caduta della sfera economica, le aspettative deluse, i desideri inappagati, diventano motivi e concause per la messa sotto accusa del sistema politico-sociale. La protesta, sia nella piazza che nelle assemblee universitarie, ben presto si trasforma in una grande rivolta (Maggio '68), dove gli individui si ribellano alle norme, al loro preteso universalismo, per affermare invece la promozione della propria individualità. In questa rivolta, è tutto un abbattere le paratie, scompaginare i piani rendere mobili le cose, per far emergere una libertà che, di colpo, instaura possibilità nuove.
Da questa situazione di disgregazione delle norme culturali senza adesione ad un ordine sostitutivo, in cui l'azione non viene pensata come l'effetto di una decisione riflessiva o orientata da un vero progetto, da questa rivoluzione, come “evento di folgorazione creatrice”, nel giro di pochi mesi, si approderà nella disserzione del politico, nel ripiegamento sulla sfera privata e nella fioritura di un individualismo edonistico neutralizzando grandi dibattiti pubblici che avevano animato i decenni precedenti Il sistema dell'arte avverte, già negli anni '68/69, questo cambiamento, sia attraverso un indebolimento del concetto della storicità, sia mediante la comparsa di una nuova tonalità affettiva, Che può essere intesa come un ritorno alle teorie del passato. Ciò avviene attraverso l'abbandono e la sospensione degli impulsi alla negazione e alla rivolta dei linguaggi, che saranno sostituiti da nuovi tipi di sintassi a dominante temporale Il movimento artistico che meglio ha caratterizzato questo mutamento, anticipando alcune tematiche post-moderne della fine degli anni '70, quali decostruzionismo e la sostituzione dei diversi modelli di profondità con pratiche di superficie, è quello chiamato “Mitologie Individuali”
Ho qui riassunto brevemente le principali categorie di pensiero che lo hanno più caratterizzato:
Ricostruzione del passato soggettivo, interrogazione sul senso reale dei ricordi, delle testimonianze estrapolate dal loro contesto e recupero della manualità dell'artista, nella riformulazione e nel la ricostruzione degli oggetti caratteristici dell'infanzia (Christian Boltanski)
Ricostruzione ideale delle forme e degli «involucri» dei reperti del passato storico, quasi a comporre un immenso museo, dove le visioni-ossessioni degli artisti vengono cristalizzate (Anne e Patrich Poirier)
Possibilità di costruire un'epidermide come storia personale e storia dell'uomo (Jean-Marie Bertholin e Dorothee Von Windhelm)
Ricostruzione, nelle fessure dei muri, tra le rovine delle case, di piccole abitazioni per un popolo inventato, come un modello di simulazione computerizzato che diventa, nelle mani dell’ artista, un prezioso manufatto e che trova il suo riferimento nel bisogno di una dimensione arcaica più colta e più umana (Charles Simonds) Riformulazione di riti e miti antichi (il Teatro Antropologico di Antonio Paradiso) e rifondazione di forme naturali e reperti della natura, anche zoomorfi (Nikolaus Lang e Nancy Graves). Un'arte, quella delle Mitologie Individuali, che ha bisogno di rico- struire i ricordi per costruire una storia, una possibilità di evasione, una necessità di uscire dalla realtà del presente per realizzare una nuova immagine del mondo
L'opera di Claudio Costa, sin dalle sue mostre del 1969-70, deve essere letta, all'interno di questa problematica, come quella che più ha mostrato un'incessante esigenza alla ricostruzione dell’identità umana nella sua totalità.
I suoi scritti teorici ed il suo lavoro, diventano stimoli continui al recupero dell'integrità dell'essere-uomo, nella sua duplice attitudine alla razionalità e alla irrazionalità, alla sensorietà e all'intenzionalità, come ricordo alle origini, al fine di recuperare un mondo umano disperso, stravolto dal consumismo e dallo sviluppo tecnologico. Questo lavoro, lucidamente estraneo al contesto del quotidiano post-concettuale e profondamente consapevole dello straniamento dell'identità dell'uomo fine anni '60, irretito dai miti frammentari di una società razionalistica e positivistica, cattura la storia dell’”utile" umano e la oggettivizza per un fine etico, mai estetico.
Gli oggetti, i riti, i miti, i costumi della cultura primitiva e contadina, il recupero di un passato remoto e della sua memoria, assumono un tono di denuncia vibrata contro la società a lui contemporanea, che tutto ha coperto, snaturato, disgregato.
Le grandi speranze sollevate dagli artisti della Prima Avanguardia ed in particolare modo dai Futuristi, quale attesa di un mondo moderno, dinamico, meccanico, crollano, secondo Costa, nelle contraddizioni di un sistema post-industriale che paventa, nel frenetico sviluppo tecnologico, i pericoli dell'involuzione dell'umano nei suoi originali caratteri psichici, fantastici ed immaginativı. Nella ricerca di Costa si assiste ad un costruire non progettato, ad un cercare una corporeità attraverso una visione artistica alta, legata alle facoltà sensoriali del percepire.
I suoi oggetti non sono mai puliti, freddi, asettici, ma recuperano una dimensione vissuta e calda, “portano con sè anima e pelle”, sono, insomma, vivi e pulsanti.
Dice Costa: «L'arte è in grado di fornire il passaggio col quale si possono liberare gli stati nascenti e puri dell'essere, vicini alle radici della commozione e della meraviglia».
In questo «passaggio» sta l'originalità della sua indagine che mette in luce il paradosso stesso della creazione artistica e ci fa intuire l'atto creativo proprio nella sua forma di evento.
E, in quest'atto, convergono creazione e regressione, nell'esperienza di una temporalità che sconvolge il suo abituale senso di marcia, che sospende la legge del suo sviluppo-degrado, che pone in causa la spontaneità del suo orientamento, la sua tendenza alla distruzione.
Nei lavori delle «Colle» e delle «Tele acide» del 1970, la materia inscrive il tempo al suo interno ed il tempo dell'esperienza ordinaria riafferma questo tempo in sequenza rovesciata.
Le «Colle» mentre essiccano, si alterano e tendono a rovinarsi, affermando la loro regressione da uno stato iniziale al punto in cui diventate diverse superfici, abbattono il confine della propria distruzione, in modo da consentire l'esistenza di una nuova possibilità di essere e di proporsi come atto creativo.
Quando nel 1970 Claudio Costa scrive su una serie di lavori intitolati «Craneologie»; «Credo di essere incinto del mio cervello...afferma ed evidenzia l'esigenza dell'uomo di comprendere se stesso mediante il suo «strumento» principale: l'intelletto Attraverso queste possibilità intellettive e mentali, mediante questo meccanismo neuronico di origine chimico-biologica, Costa vuole ripercorrere il cammino a ritroso alle origini della vita, fino ad arrivare ad un possibile «zero assoluto», spinto dall'esigenza di capire e capirsi, nel tentativo estremo di poter essere ciò che è già stato, di essere partecipe «all'impossibilità possibile della sua esistenza»...
Il suo libro: «Evoluzione e Involuzione» (Ed. Masnata), la cui prima stesura risale al 1970, si apre appunto con la descrizione del l'esplosione dell'universo: «il big bang» visto come punto di ong- ne, come «zero assoluto».
Questa volontà di allontanarsi dai territori del metalinguaggio, propria dell'Arte Concettuale di quel periodo, per indagare sulla genesi delle cose, nasce dal desiderio di disvelare le direzioni evolutive prese dall'uomo verso una condizione umana che si è allontanata in modo eccessivo dalla propria condizione originale. Un'evoluzione che, attraverso i processi di mutazione, infiniti estratti dall'infinito numero delle possibilità», crea ordine dal di- sordine. Una volta compiutasi casualmente una modificazione, questa stessa modificazione entrerà nel meccanismo della ripetizione e la natura dell'evoluzione può rientrare così <«nell'uniformità e nella continuità dell'eguale»
La possibilità della natura di divenire e di mutare dipende, quindi, da ciò che essa è già stata, «nell'uniformità del momento trascorso».
Partendo da questi presupposti Costa afferma: «l'evoluzione trascina il tempo di cui ha bisogno, trasportandolo, per ogni atto seguente, nel futuro».
L’intera sua opera ha come fondamento questa metafora del tempo. Evolvere non significa solo una lenta ed incessante trasformazione delle specie viventi nel corso dei millenni, ma soprattutto la possibilità per l'uomo di conoscere le cose come spazio occupato nel mondo, dove "il fenomeno sconosciuto ha sempre una spazialità sconosciuta”,
La conoscenza da parte del soggetto non sarà soddisfatta fintanto che esisterà un “territorio della cosa” bandito da questa conoscenza. Più si conosce, meno gli oggetti avranno spazio intorno loro. Ma se l'uomo stesso non può sottrarsi «dall'essere cosa nel mondo», il suo bisogno di conoscenza finirà col diventare la «precisazione del rapporto tra lo spazio occupato dal soggetto che studi «le cose» ed esse stesse come «spazio di cose nel mondo Gli uomini primitivi si trovavano nella condizione di considerare gli oggetti e i fenomeni naturali «fasciati» od avvolti da uno spazio Da qui il loro bisogno primordiale di una totale trascendenza delle cose e degli oggetti che, in quanto non conosciuti, potevano essere divinizzati. Cosi, «gli dei furono tanti quanti erano gli enigmi delle cose»
Quando poi la relazione con i fenomeni del mondo da estensiva è diventata conoscitiva, gli spazi irrisolti delle cose sono caduti questi sono diventati immanenti al mondo
L'opera di Costa, mentre denuncia la «condanna» propria del l'uomo a «continuare ad evolvere, a credere di appartenere al futuro e ad immaginarlo migliore», elucida i pericoli di tale condizione e ne paventa i limiti di sviluppo. Egli, mentre dichiara che le cose non sono mutate in sè, per il solo fatto di essere state oggetto di ricerca, ma che solo l'uomo è mutato, vuole operare, at traverso il suo linguaggio specifico, una rappresentazione della spazialità delle cose per vederne le possibilità estensive. Evidenzıarle, ricreane l'aura», diviene il fondamento di nuove operati vità, nella moltitudine delle loro presenze, «insieme al misterioso e meraviglioso delle loro nature».
Se evolvere significa «involvere» la totalità dell'umano, togliere la vastità e l'originalità del suo essere, per parcellizzarlo e frazionario sempre più, «evoluzione e involuzione» diventano un'asserzione metaforica risonante dove, attraverso la “interattività dei due soggetti” si vuole arrivare ad un altro grado di ricerca che implica una successiva elaborazione: cercare di far comprendere che l'uomo fa parte di un'umanità senza destino
Pertanto, attraverso l'estensione, in diverse direzioni, della spazialità dell'essere-uomo e delle sue facoltà immaginative, si può riportare la vita sul sentiero dell'unicità, nella libertà delle sue possibili scelte esistenziali.
IL RIPAESAMENTO DELL'OGGETTO
Un lavoro molto significativo di Costa può essere considerato l'articolo intitolato: “L'uomo e l'oggetto come fenomeni scil nella struttura mobile di un Museo Antropologico”, che si riferiva all'apertura del Museo di Antropologia Attiva di Monteghirfo, nel settembre del 1975. Monteghirfo è un piccolo paese dell‘entroterra ligure, nei pressi di Genova, tipico della condizione contadina di questa regione. Una delle case del villaggio, ormai semi deserto per l'esodo verso la città, era stata chiusa alla morte del capofamiglia, la moglie e i figli si erano trasferiti nell'abitazione contigua, lasciando ogni cosa come si trovava. Questa casa, rimasta completamente intatta e chiusa nel tempo, dove gli oggetti conservavano la propria integrità spaziale, diviene motivo di attenzione particolare da parte dell'artista, che vi passa qualche mese a ripulire e togliere polvere alle cose là contenute. Procede quindi a catalogarle ed a nominarle nel linguaggio originario quella regione, aiutato dalle persone che ne conoscevano i segreti, nella speranza di restituirlo a quella cultura delle risorse con la quale era possibile identificarlo.
A differenza del gesto di Marcel Duchamp che, alla fine del 1911 in un Museo, presenta un oggetto manufatto già prefabbricato sul quale si era limitato ad apporre la sua firma, elevandolo a forma artistica, Claudio Costa utilizza uno spazio «che si manifesta eloquente per la coscienza, la conoscenza e la consapevolezza della vita e che assume il ruolo di supporto ideale per la verifica sulla memoria delle cose». Se l'oggetto in Duchamp e trovato, scelto, isolato, l'oggetto del Museo di Monteghirfo è un oggetto ritrovato, in rapporto continuo con gli altri oggetti o con altre realtà. L'oggetto duchampiano tende a neutralizzare ogni emozione estetica, sotto qualsiasi forma essa si presenti ed essendo “neutro” tende ad ospitare il vuoto, a custodire il silenzio, ad accoglier nulla. L'oggetto di Costa, invece, conservato nell'ambiente che ha visto nascere e lo ha contenuto, mantiene il senso del rapporto originario con l'uomo, anche se, mutata «l'occasione», muta la fruibilità diretta con l’osservatore.
Se l'oggetto in Duchamp è autosufficiente, autosignificante, afunzionale, l'oggetto del museo di Monteghirfo non è solitario, quanto è posto in costante rapporto con altri oggetti e col par saggio che lo circonda, conservando così l'identità della sua funzione e del suo modello antropologico.
Uno dei temi centrali del pensiero di Costa è il concetto di spasamento che vuole entrare in opposizione dialettica con il termine «straniamento» proprio delle avanguardie.
Lo stesso Costa afferma «Mi sono reso conto che non si può palare di cultura materiale contadina, lontano dalla campagna, perchè ché l'oggetto antico, fabbricato a mano, molto spesso fatto da lo usa, per non perdere questo suo statuto antropologico gesto di fabbricazione) deve esser visto e capito nel suo luogo di appartenenza e di significanza».
Mentre Duchamp aveva «estraniato» l'oggetto dalla sua funzione Costa, trasportando tutto ciò che è mobile di un museo, come luci, le transenne, i cartelli indicatori, ecc. attorno all'oggetto esalta la funzione. Questo rimane uno degli obiettivi strategici dell'artista: rendere la funzione agli oggetti ed alle cose (al contrario di Marcel Duchamp) se si vuole che la cultura, anche quella materiale, torni a far parte della nostra storia. Apparentemente «passive» le «cose» diventano «attive» per la loro capacità di comprendere la natura, come contenitori di essai n quanto possono venir riassunte a «corpus» completo con l’ambiente che le circonda Il Museo di Antropologia Attiva deve essere anche letto come luogo di un duplice scambio culturale quello dei visitatori che devono spostarsi dalla città, per giungere su di un terreno che non appartiene loro, diventando partecipanti di un incontro con la realtà con cui non hanno confidenza: l'odierna cultura contadina e, al contempo, i contadini incontreranno gli abitanti della grande città, di cui spesso non conoscono neppure il modo di esprimere Il concetto di «paesamento» si evidenzia nel mettere in luce le due realtà umane che si confrontano e si scambiano le loro differenze due mondi separati che si coniugano attorno alla casa resa museo, per comprendere e comprendersi.
L'ANTROPOLOGIA DEL «WORK IN REGRESS>>
Nel 1977, Costa apre il suo studio genovese di Via Frugoni, dove si era da poco trasferito, con una mostra dal titolo emblematico “ Credete che i corvi di Vincent siano morti?” e teorizza il suo concetto di Work in regress. Questa dichiarazione di poetica, nata quasi in contrappunto al lavoro «in progress> di James Joyce [Costa diceva proustianamente “Vorrei che il mio lavoro fosse un fiume lavico che dalla foce risalga alle sorgenti…"), non va inteso come un ingenuo ritorno alla semplicità originaria, nè come una regressione freudiana ad un linguaggio pre-logico o pre-alfabetico, ma piuttosto, come un'onda carica di presente che si deposita in una zona privilegiata del nostro passato remoto, o come l'immagine di una «macchina del tempo che ci permette di scorrere facilmente fra diverse ere antropologiche e preistoriche, che presagiscono quelle future. Work in regress», dunque, come pratica e coerenza di vita, come Impostazione mentale, per comprendere fino in fondo ciò che ci viene dal profondo delle stagioni trascorse, dalla vita dei progenitori, per capire le istanze del quotidiano ed avvicinarsi più consapevoli alla dimensione probabile del domani. Opere come «La lampada (di Aladino)» o «La ruota macina il tempo del '77, «Il cerchio magico» o «Senza titolo ) »del 78, e altre dello stesso periodo, si legano ad un problema antropologico che appare non scisso o isolato da una possibile condizione post umana. Infatti, l'idea del Work in regress è legata sia all'antropologia, sia alle ritualità dei miti primitivi di cui si è persa la traccia oiginale e che sono reinvestiti per una società futura e non per essere l'arte dell'idea-invenzione separata dal resto della cultura che ci appartiene È piuttosto un tentativo di far affiorare, attraverso il confronto fra culture le più diverse, l'umano straniato dallo sviluppo repentino delle innovazioni tecnologiche, per ricomporlo e canalizzarlo in un flusso continuo di immaginazione che tenga conto della ininterrotta continuità del tempo Costa scriverà più tardi «Lasciamo che il tempo seppellisca certi oscuri quartieri spenti della vita, come seppellì milioni di oggetti fatti a mano con selci neri e taglienti, così come divorò silenzioso pentole di terra color del croco e forconi colati in bronzo e lucignoli da caverna. Noi possiamo pensare che NOI siamo il tempo, noi umani noi come tempo, come musica, come sussurro, come altalena, come libertà, come principio, come bellezza, come so- stanza, come forma, come natura...».
Creare è piuttosto ricreare, cioè rappresentare antropologicamente l'atto creativo come una sorta di movimento all'indietro. E per poter ricreare occorre regredire nel tempo: dalla morte alla vita, dalla fine al principio.
È come dire: «La creazione è regressione antropologica», oppure «l'antropologia vive come ricerca delle tracce originarie, in un cammino a ritroso che, dai misteri sconosciuti, ci riporta all'immagine dell'uomo» o ancora: «conoscere è ricordare il conosciuto lontano»...
Nell'esperienza di una temporalità che sconvolge il suo abituale senso di marcia, che sospende la legge del suo sviluppo, che pone in discussione la spontaneità del suo orientamento, la sua tendenza all'entropia: è qui che convergono creazione e regressione, preistoria e antropologia.
PREISTORIA E ANTROPOLOGIA
Qualche tempo dopo l'apertura del museo di Monteghirfo, Costa inizia un nuovo modo di operare, un nuovo modo di essere verso la «cosa», l'oggetto. Egli comincia a ricoprire di terra incollata gli oggetti ricostruiti che appartengono ad una cultura dimenticata: quella contadina. Ricopre di terra mobili, madie, scansie, cassa panche per la farina di castagne, gli arnesi per lavorare la terra Attraverso questa ricopertura l'artista cerca di porre un fragile scudo “contro la rapina che la nostra civiltà consuma indisturbata sulla cultura contadina delle risorse…"
Accade infatti che gli oggetti del nostro ambiente, cose famigliari definite dalla loro appartenenza ad un mondo dato, cessino di funzionare, di affermare la loro utilità, di servire, e si limitino ad esistere Essi si trovano improvvisamente gettati, per così dire, in una situazione di «fine di mondo» in uno stato che potremo definire di soglia critica, cioè in un punto di transito e di passaggio tra mondo e caso. La «cosa» è lì, sulla soglia, famigliare ed estranea ad un tempo, riconoscibile ed assurda, afferrabile, ma al contempo gratuita ed insignificante, ancor utile, ma in ogni caso inopportuna ed eccessiva.
È appunto una situazione di soglia, situazione in virtù della quale la stessa cosa ci è presentata contemporaneamente come frammento di un mondo e come apparizione casuale. È presente, esiste come resto incancellabile, quando il mondo è stato posto fra parentesi.
Si attua una sospensione dove, ciò che viene sospeso è il senso stesso, sospensione in cui si annuncia quel passaggio all’Insignificante che segnala il fatto dell'esistenza nella sua vuota casualità. Costa, dopo aver riposto l'oggetto nel suo luogo di appartenenza e significanza, vuole ora, attraverso la ricopertura, mettere in scena questi oggetti sospesi, quasi abbandonati, e dirigere su di essi una nuova atterizione, cioè toglierli dalla sospensione della soglia critica per ridare loro senso.
Nel 1976, col lavoro, Le case di fango Costa porta avanti questo modo di operare, ricostruendo e ricoprendo gli oggetti e le forme viventi.
Il Museo di Antropologia si combina e si sviluppa nel Museo di Storia Naturale, dove gli anfibi, i pesci e le scimmie “vengono fatti salire sulle vecchie scale legnose e ripide come i sentieri di quelle valli, a disporsi in calchi fra gli arnesi per la spremitura dell’uva.” Nell'anno successivo, nella mostra Il miele dell'ape d'oro, l'artista vuole ritrovare il senso, il senso panico della Natura La mostra viene strutturata in tre luoghi, dal titolo «Gli strumenti solidali con una agricoltura terrestre», «Il miele dell'ape d'oro», «La stanza del mistero» .Nella prima stanza Costa, partendo da una madia ricoperta di terra e riempita di letame, affronta il tema delle proprietà rituali delle feci e, con i calchi in gesso, l'immagine fotografica e la ricostruzione delle forme degli arnesi per lavorare la terra, l'artista vuol evidenziare la situazione di soglia degli oggetti appartenuti ad una agricoltura terrestre, frammenti di un mondo pieno di significanza e di calore, attraverso cui Costa vuol catturare lo sguardo dello spettatore
E il mondo dell'umano-agricolo portato nella grande città, un monito ecologico a non perdere il senso delle cose naturali ed umane.
L'opera di Costa ha questa costante intellettuale e diviene un continuo testo visivo e teorico, spesso quasi pressante, volto al l'uomo affinché non perda il proprio statuto antropologico, il proprio spazio di fronte alla natura ed ai suoi misteri da un punto di vista mentale.
In una intervista riportata nel libro “Work in regress” (Ed. Facto tumbook), lo stesso Costa afferma. “ L'oggetto vero non compare mai: la madia è ricoperta di terra e, con il corno ed il letame, assume un valore simbolico di feticcio animale”.
La pala, la zappa, il rastrello, appesi al muro, sono ricostruzioni in terracotta artigianali e come gli oggetti presi in esame, hanno anch'essi una funzionalità artigianale ben precisa. L’Artista aggiunge aggiunge “la fotografia incorniciata dell'oggetto vero mi serve come traccia, come riferimento per la sua ricostruzione, mentre l'impronta in terra mi dà la misura della sua missione reale”
L'oggetto del ready-made di Duchamp, reso neutro dalla propria operazione, diviene, în Costa, «ripaesato» attraverso la ricostruzione, la sua traccia, la sua immagine ma, in special modo, attraverso la sua impronta in terra che dà, all'artista e al pubblico, la sua dimensione reale.
La traccia e l'impronta delimitano lo spazio di conoscenza del l'oggetto stesso.
Ripaesamento è, anche in questa mostra, il tema dell'agricoltura celeste, un termine di derivazione alchemica. agricoltura celeste come punto di arrivo dell'«Opus», dell'«Aurum non vulgi», come coltivazione sul piano mentale, sia della necessita del mito, che della collettività della psiche
Indubbiamente la figura mitologica nell'orizzonte culturale di questo artista è Marcel Duchamp, il personaggio più importante dell'arte del XX secolo.
La vera problematica di Costa non è tanto quella di entrare nell'area duchampiana, come era stato in effetti per Fluxus, ma di rovesciare il lavoro del maestro dadaista, cercando l'opposto dialettico di ciò che Duchamp aveva fatto.
Anche nel campo dell'Alchimia, Costa continua questo rapporto/ scontro con Duchamp.
Infatti, se per Duchamp l'Alchimia rimane un problema Invisibile, un rifugio segreto, un labirinto di cui lui solo conosceva la chiave di lettura, un modo ermetico completamente chiuso, per Costa, diviene esplicita dichiarazione». Nella mostra La metafisica del quotidiano del 1978, egli fa una vera dichiarazione sulla visibilità dell'alchimia. Una volta dichiarato, il problema alchemico diventa la base per una rilettura omogenea dei miti, dell'irrazionalità e di tutto ciò che si afferma come pura latenza, cioè come fantasma, come immagine, come ombra o come doppio
Costa, citando l'immagine alchemica, ne segue i mondi immaginari e ce li restituisce attraverso visioni irreali.
Oggi possiamo meglio capire alcuni suoi lavori dei primi anni ottanta, che ci erano apparsi troppo ricchi e pesanti: erano frutto della necessità che egli aveva in quel momento di attraversare l'immagine barocca, in quanto la visione alchemica porta, se la sı vuole attraversare completamente, alle “sponde esteriori dell’artiicio". Infatti, nell'Alchimia di Costa, viene a cessare il rimando all'uso della metafora, che diviene «affermazione» tout court.
Così, «i segni per lui sono davvero segni, le cose cose, i corpi corpi e la creazione creazione» (F. Gualdoni). Attraverso il suo concetto del «tempo trasportato» viene ribaltata la problematica della spazialità della Seconda Avanguardia di questo secolo (anni '58-'70) e si aprono nuove possibilità interlinguistiche, da cui non sono estranei alcuni fenomeni posteriori di “ripaesamento” della pittura stessa, come quelli del Post Modernismo, della Transavanguardia e della Pittura Colta
LE RUGGINI COME MATERIA
Oggi, Costa sta vivendo un periodo di uscita dalla propensione alchemica propriamente intesa, ricercando un ripulirsi mentale attraverso un'immagine essenzialmente primitiva e il frequente uso del vetro come citazione concettuale.
È interessato, in particolare, al recupero di vecchie lamiere arrugginite, trovate sulla spiaggia del mare o in aperta campagna, che incolla su lucenti cristalli. Segnate dal gesto della sua mano che vi imprime tracce mimanti le pitture rupestri preistoriche, queste “ruggini” ripercorrono, in altro verso, il cammino a ritroso delle
Il vero eroe non è l'individuo votato a grandi imprese, bensì chi è riuscito − attraverso le piccole cose − a costruirsi uno scudo fatto di lealtà.Paulo Coelho, Il manoscritto ritrovato ad Accra, 201 2 La foto riproduce uno scudo rituale della cultura KATU ( Vietnam, Laos ) Anche in questo caso le opere d’arte ci ricordano che i confini delle culture non sono tirati con il righello dei colonialisti, ma plasmati da un complesso sistema di fattori geografici, storici ed economici che formano i popoli e le loro tradizioni. Ci ricordano che sono permeabili, reciprocamente influenzati dagli usi e dai costumi delle persone che li abitano; luoghi di incontro, e non necessariamente di scontro. Ci ricordano anche come l’uso delle parole non è asettico, ma potenzialmente propagatore di pregiudizi e discriminazione. Questo scudo cerimoniale è abitualmente attribuito ad un popolo vietnamita chiamato Moi; già l’uso di questo termine è ambiguo e in parte irrispettoso. Infatti i diverso ...
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