IN MEMORIA DI RENATO BREVIGLIERI.
Prima o poi ciascuno di noi si imbatte nelle grandi domande, quelle che danno un senso all’esperienza di esistere. Davanti ad una nascita, una malattia o una morte che ci coinvolga direttamente, la profondità del Mistero della vita mette a pensare. La reazione più immediata è rimuovere la domanda; la rimozione aiuta certamente a sopravvivere ma la questione resta lì, a sedimentare nel profondo fino a creare quella sottile angoscia che può diventare devastante; non è naturale rimovere i problemi e non elaborarli. Essere umani è essenzialmente porsi domande per costruire risposte, consapevoli del fatto che spesso esse generano altre domande in un loop esistenziale infinito ed infinitamente stimolante perché porta sempre a fare un passo avanti. Gli psicologi segnalano il pericolo di un “loop mentale” inteso come un circolo di pensiero, un anello, che può diventare un cappio, può portare a sentirsi stretti in una “morsa” di pensieri e rimugini. Una persona che è in loop si trova in un circolo vizioso con pensieri solitamente negativi e svalutanti, una sorta di inganno mentale. Per loop esistenziale intendo invece la capacità di approfondire, di “fissare” un ‘idea per andarne all’origine. Penso a questo proposito a quanto sia utile riflettere sull’impegno che chiede rispondere ai tanti, insistenti “perché” dei bambini, al fatto che all’origine naturale del percorso di crescita ci sia proprio l’avverbio “perché”..
Ci sono contesti che risultano illuminati nella ricerca di se stessi, della origine profonda di ciò che siamo e di come ci poniamo in relazione con noi stessi, gli altri e l’ambiente nel quale viviamo. Come sempre comprendere l’etimo delle parole pensate e usate è un utile primo passo; contesto, ad esempio, deriva dal latino contexĕre «contessere» e significa letteralmente: intessuto, connesso insieme: siamo quindi al primo e principale strumento indispensabile per capire e comunicare. Il primo contesto da esplorare è il nostro corpo, come insegna la psicologia dell’età evolutiva, e probabilmente è una esplorazione che dura tutta la vita, mutando con il mutare del corpo. Si può dire, in questo senso, che passiamo la nostra esistenza a risalire verso il corpo, nel senso più fisico del termine: prendere atto di come siamo fatti, di ciò che possiamo fare con l’insieme del nostro corpo e con le sue singole parti o, anche, partendo dall’assenza di alcune di esse. Pensate a come le persone prive di arti, o di sensi, elaborano le loro menomazioni e riescono ad agire in modo resiliente. Il corpo insegna; il suo insieme, come le singole parti diventano modello e simbolo.
Pensate , ad esempio, alla mano.
“..Il primo oggetto che ho incontrato nel mio lavoro passato è stata la scrittura; ma intendevo allora il termine in senso metaforico: era per me una varietà dello stile letterario, la sua versione in certo modo collettiva, l'insieme dei tratti di linguaggio attraverso i quali uno scrittore assume la responsabilità storica della propria forma e si collega con il suo lavoro sulla parola a una determinata ideologia del linguaggio. Oggi, vent'anni più tardi, per una sorta di risalita al corporeo, è verso l'aspetto «manuale» del termine che vorrei avviarmi, è l'impennatura [« scription »] (l'atto muscolare d'articolare scrittura, di tracciare delle lettere) che mi interessa: quel gesto con il quale la mano impugna uno strumento - punzone, calamo, penna -, l'appoggia su una superficie, vi avanza premendo o carezzando, e traccia forme regolari, ricorrenti, ritmate (non occorre dir di piú: non si parla necessariamente di «segni»). Del gesto dunque si tratterà qui, e non delle accezioni metaforiche del termine «scrittura»; e non si parlerà che della scrittura manoscritta, quella che implica il tracciato della mano…..Il corpo di questi nodi di domande non ha dunque valore dimostrativo, ma è pur tuttavia impregnato di un qualche senso: esso indica che la scrittura, storicamente, è un'attività continuamente contraddittoria, articolata su una duplice istanza: per una parte è un oggetto strettamente mercantile, uno strumento di potere e di segregazione, intinto nel fondo piú crudo delle società; e dall'altra, è una pratica di godimento, legata alle profondità pulsionali del corpo e alle produzioni piú sottili, e piú felicemente riuscite dell'arte. Ecco la trama del testo scrittorio. Non ho fatto qui che disporre, dispiegare le fila. A ciascuno ora il proprio ordito.”
”
Cosi scriveva Roland Barthes ( Variations sur l'ecritures , 1996) . Ma se questo approccio così intuitivo per quegli anni presupponeva già' la presenza di una consistenza culturale nel semplice gesto meccanico, cosa possiamo dire oggi grazie all'evoluzione dei saperi e in particolare degli studi sempre più' suggestivamente accurati sul funzionamento del cervello? E ancora, quali elementi di novità possiamo registrare grazie agli studi sulla genetica del linguaggio iniziati da Chomsky , quali interconnessioni esistono interfacciando i risultati ottenuti dalle diverse discipline che si occupano del linguaggio ( antropologia, glottologia, linguistica, psicoanalisi, neuro scienze..) , e sopratutto, cosa succede se irrompe in questo dialogo scientificamente multidisciplinare la forza tellurica dei linguaggi dell'arte? (1).
Che la scrittura, e più in generale il segno, siano naturalmente rese possibili da quell’arto così complesso che è la mano è un fatto, ed è logico che la sua forma abbia ispirato la realizzazione di manufatti tanto semplici quanto essenziali fin dai tempi più remoti. Ed è sorprendente che ciò che nacque da simili ispirazioni sia, semplicemente, bello…
E’ il caso di cucchiaio e pettine.
Entrambi gli oggetti vennero ragionevolmente realizzati pensando alla mano, ed ai gesti utili che essa consente: passarsi le mani nei capelli per pulirli è sicuramente il gesto che ha portato alla creazione dei primi pettini e ancora oggi si raccoglie l’acqua per bere da una fonte mettendo le mani “a conca”; la ricerca di un oggetto più funzionale portò all’uso di conchiglie, e poi alla fabbricazione di cucchiai.
Per presentare l’esposizione degli oggetti di questo tipo presenti nella Collezione Permanente Tribaleglobale, vi ripropongo quanto scrissi tempo fa.
PETTINI vedi le opere esposte qui https://flic.kr/s/aHskkzNvuX
“ Tutti i nodi vengono al pettine. Quando c’è il pettine” Per la presentazione della nostra collezione di pettini ho scelto una frase di Leonardo Sciascia; definisce in modo caustico ed essenziale l’importanza che riconosciamo a questo piccolo oggetto d’uso quotidiano, ne svela il profondo significato simbolico e concettuale. Come nasce un pensiero, o meglio, come nasce il pensiero, come si evolve fino a diventare un sistema complesso ed articolato che diventa cultura? Si può certamente dire che l’osservazione di gesti istintivi fondamentali per la sopravvivenza fino dall’antichità più remota, l’interiorizzazione del loro manifestarsi, gli elementi fondamentali che ne qualificano l’utilità funzionale sono l’insieme fondante del processo di conoscenza. Osservare, comprendere, astrarre e concettualizzare una esperienza ponendola in relazione ad altre, rende quella esperienza patrimonio culturale. E l’essere umano è sempre partito dal proprio corpo, dal modo in cui esso si fa strumento per governare il mondo circostante fin dalle azioni più semplici.
Pensate alla mano, primo strumento che districa i peli incolti del primate ( e poi dell’uomo), che lo aiuta ad aprirsi un varco nella radura. Probabilmente il primo pettine è nato così, realizzato da qualcuno che osservò la propria mano e la riprodusse nella forma, che parte spessa e solida per dipanarsi in una serie di elementi appuntiti. Come la mano districa i capelli, apre la strada nella foresta, i denti del pettine mettono ordine nei capelli e li liberano da parassiti. E non deve essere un caso che gli elementi terminali del pettine siano chiamati da sempre denti.
I pettini presentati in questa pubblicazione provengono da aree geografiche e culturali profondamente diverse tra loro. Africa, Oceania e Indonesia, India. il linguaggio estetico, i materiali usati, i riferimenti simbolici ne dichiarano l’appartenenza culturale e geografica, ma hanno origine comune.
Osserva Donatella Dolcini, Professore Ordinario di Lingua Hindi e Cultura Indiana presso Università Statale Milano (UNIMI) nel catalogo che presentò la collezione di pettini raccolta da Giuseppe Berger : “Al pari di dita/unghie, anche i denti svolgono una funzione di primaria importanza nel ritmo quotidiano della vita dell'uomo, permettendogli di incidere il cibo così da ridurlo immediatamente da un complesso unico e coeso - difficile da inghiottire, grande o piccolo che sia - a uno almeno grossolanamente parcellizzato. In sostanza, una variante del gioco delle dita che dividono un unico blocco in porzioni (strisce) più minute e agevoli da gestire. E infine l'elaborazione del pettine, dal mero uso primario, direttamente disceso dall'analogia con la mano, a quello mediato dalla dentatura, giunge a quel terzo stadio, immancabile nei processi di manifattura dell'uomo, che è il lato estetico. La mano-pettine, che in seconda battuta aveva incorporato anche l'imitazione della funzione dentaria, diventa alla fine un oggetto ancora più evoluto, in cui si manifesta non più solo la concreta estensione tecnologica di organi naturali, ma anche il libero apporto della creatività umana. Così la forma del pettine si abbellisce con l'eventuale aggiunta di un manico più o meno elaborato e di ghirigori che vanno ad impreziosire l'impugnatura, e modifica la propria misura fino a diventare il pettinino, un grazioso e aggraziato complemento della toilette e dell'abbigliamento soprattutto femminile.“
Il valore insieme semplice e profondo di questo tipo di oggetti è sorprendente, manifesta in modo netto la capacità umana di elaborare esperienze e migliorarle costantemente mediante un perfezionamento tecno logico che non è prodotto da macchine ma dall’ingegno. Ed è altrettanto sorprendente la necessità di rendere l’oggetto non solo funzionale ma anche bello, caricandolo di contenuti simbolici evocativi che spesso sono destinati ad amplificarne metaforicamente la funzione.
Nei pettini delle culture Ivoriane, in gran parte raccolte da Giovanni Franco Scanzi negli anni sessanta del secolo scorso, l’elemento identitario è evidente. Le forme rimandano a figure di Antenati Ancestrali, oggetti sacri, animali il cui potere energetico, per il tramite dell’oggetti, potrà aiutare chi lo usa. Nel caso degli antichi pettini in avorio provenienti dalla Collezione Berger, in gran parte “scritti” con la figura di Ganesh, sempre Dolcini nota giustamente “Forse la ricorrente iconografia sul pettinino del dio elefante (Ganesh appunto) potrebbe collegarsi all'immagine simbolica che la capacità del pachiderma a farsi largo nella fitta vegetazione della giungla, penetrandovi dentro, suscita riguardo al figlio di Shiva, adorato infatti anche come rimovitore degli ostacoli.“
Giuliano Arnaldi https://www.mapmuseum.it/?s=pettini , 21 settembre 2023
CUCCHIAI vedi le opere esposte qui https://flic.kr/s/aHsmLXXGxy
COCHLEARIBUS. A proposito del cucchiaio
Che sia una forma parlante è fuori discussione. L’uso e la forma rimandano alla funzione, quella di raccogliere liquidi o semi liquidi. Che sia nato dalla conchiglia è altrettanto acclarato, sia per la forma che per l’uso. Ne consegue un carico evocativo di tutto rispetto. La conchiglia, infatti, occupa un posto d’onore nel Pantheon degli oggetti simbolici. Gli antichi Greci pensavano che Venere fosse nata da una conchiglia, Pecten, in latino, identifica sia la sporgenza ossea che costituisce la parte superiore del pube che un particolare tipo di mollusco. Si veda a questo proposito il testo che segue, “ L’ECO DELL’OSTRAKON “ di Sibilla Pinocchio. Nella tradizione Cristiana la forma della conchiglia è iconograficamente molto significativa. Le Fonti Battesimali, le acquasantiere e molti oggetti legati a riti di purificazione hanno spesso forma di conchiglia, la conchiglia stessa è raccolta ed usata dai pellegrini come piatto e come ciotola per bere, semplice ed essenziale. Botticelli, Piero della Francesca, Caravaggio e molti altri grandi Maestri dell’arte occidentale hanno posto la sua forma evocativa al centro delle loro narrazioni pittoriche. Anche le culture extraeuropee riconoscono un importante valore simbolico alla conchiglia. Considerata un buon auspicio per un viaggio felice, è uno degli otto simboli di fortuna per i Buddisti; la Divinità Azteca della Luna, Signora delle acque e Archetipo femminile che presiede ogni forma di fecondità si chiama “ Quella della Conchiglia”, e nei continenti Africano e Oceanico è insieme moneta di scambio, simbolo di benessere e fecondità e potenziatore del valore rituale di oggetti, maschere e sculture. Si coglie in modo significato la valenza “alfabetica” della conchiglia proprio osservando le opere d’arte che provengono da quei paese lontani. L’essenzialità formale dei loro linguaggi dell’arte, concentrati sull’obiettivo di evocare stati di coscienza e concetti culturali per il tramite di un linguaggio essenzialmente metaforico, ben testimonia il valore simbolico della conchiglia, presente nel tipo Cypraeidae. In tempi più vicini a noi, penso che solo Lucio Fontana, con i suoi tagli e le sue “Nature” sia riuscito rinnovare il potere evocativo di ciò che la forma conchiglia evoca d’istinto.
Tornando al cucchiaio, non sono lontani i tempi in cui anche noi ne valorizzavamo il valore simbolico. I Padrini donavano un cucchiaio ai loro Figliocci nell’età dello svezzamento; i più abbienti lo sceglievano in argento o in osso, materiali altamente simbolici. Nel tardo Medioevo porre un cucchiaio di legno sul cappello significava cercare un nuovo padrone; compivano lo stesso gesto gli Ufficiali Giannizzeri nei territori dell’Impero Turco-Ottomano, ad indicare che era il Sultano in persona a provvedere al proprio nutrimento. Ma come sempre sono le culture extraeuropee a parlare nel modo più suggestivo ed elegante, anche se forma è strettamente connessa all’uso. Nel continente Africano, dove l’uso di portare il cibo alla bocca con la mano destra, i cucchiai sono usati in circostanze speciali; si onora la presenza di un ospite di riguardo riservandogli il primo boccone offerto con un particolare rituale, presso gli Zulu ancora oggi si “ dà in pasto” agli Antenati un poco di cibo o bevanda, ed ovviamente la forma dell’oggetto non può essere casuale. Prevale l’evocazione del corpo femminile, nel caso dei cucchiai Kulango esso viene declinata nella forma a zig zag, altro elemento metaforico architettare che indica l’alternanza di vita e morte, l’acqua, lo scorrere del tempo. I cucchiai Somali presenti nella Collezione Permanente tribaleglobale sono “scritti” con il nodo di Salomone. E’ un simbolo che appare anche appare su molti oggetti provenienti dal nord Europa ed è frequente nell’arte paleocristiana (per esempio sui mosaici delle chiese) come simbolo di unione fra l'Uomo e la dimensione del divino. Evoca il labirinto, la convergenza verso un centro ideale.
Che il nodo di Salomone sia rappresentato su un sempre utensile in legno, destinato ad un uso altrettanto semplice ma indispensabile, rende bene l’idea di come culture lontane siano essenziali ma non inferiori, sempre connesse ad un Mistero più grande, sempre capaci di evocarlo e comunicarlo attraverso il più autentico alfabeto umano, quello delle immagini. Il fatto che ogni cultura extraeuropea caratterizzi la forma di un oggetto per noi così usuale ed “asettico” come il cucchiaio caricandolo di contenuti evocativi ( già nella forma o rappresentando su di esso figure antropomorfe o zoomorfe bene auguranti ) fa riflettere. Ci sono luoghi nel mondo dove nutrirsi , purtroppo, non è una abitudine scontata.
Giuliano Arnaldi
https://www.tribaleglobale.it/wp-admin/post.php?post=408&action=edit , pubblicato il 22 marzo 2023
1) Giuliano Arnaldi, Risalire verso il corpo - 2019 -