Passa ai contenuti principali

Asger Jorn, la comprensione delle origini.

Guldhorn og Lykkehjul / Les Cornes d’Or et la Roue de la Fortune”,1957 L’arte tradizionale non è la stessa cosa dell’arte popolare, che è creata per piacere al pubblico L’arte tradizionale ( intesa come insieme di miti e tradizioni di un popolo n.d.r. ) è l'arte creata dalle persone per le persone. Ciò conferisce all'arte tradizionale un carattere molto speciale che alcuni chiamerebbero statico, perché è un monologo o un soliloquio che non intende portare a casa un fatto particolare in un luogo particolare, ma è rivolto all'artista stesso e al suo ambiente. Non c'è nulla di agitato o di eroico, nessun dramma elevato in tale arte; e, cosa ancora più importante, non potrà mai essere periferico rispetto al suo ambiente culturale; al contrario deve essere centrale - si potrebbe quasi dire eterno, immortale - perché è tutt'uno con l'anima stessa del popolo. L’arte tradizionale non può morire se non muore la gente stessa… Asger Jorn, 1953 in Chresten Hull and the postulated death of folk art in the North A volte i cosiddetti Critici mummificano le opere d’arte, le vivisezionano con un approccio entomologico, spesso con una puntuale, ossessiva precisione che ricorda vagamente la chirurgia nazista. Ne descrivono nel dettaglio ogni aspetto , senza occuparsi dell’insieme vitale. Si potrebbe dire che compiono accurate autopsie su corpi vivi, generando oltretutto una noia mortale in chi li legge o ascolta. Angelo Saglietti - Sofo -, intellettuale ponentino vissuto un attimo prima della generazione di Asger Jorn, parlando di archeologia sosteneva che «la vera archeologia è quella che non si limita a un lavoro da beccamorti o da topo di museo, ma sa scoprire anche i simboli, le idee, i significati, ossia sa risuscitare l'anima dell'antichità. Solo in questo modo la preistoria diviene "Eterna Storia", in cui passato e presente coincidono, perché radicati su ciò che di eterno e divino c'è nell'uomo». Per questo motivo Sofo asseriva che l'archeologia non è che «uno scavare nella profondità dell’animo» ( Angelo Saglietti e Ito Ruscini, la Caverna Bertrand , 2021 ) Penso che questa definizione - beccamorti ! - debordi in ogni ambito degli studi sull’arte… Accade, purtroppo, anche nel caso di coloro che chiamiamo ( sbagliando ) Situazionisti. Dico sbagliando perché secondo il glossario codificato da I.S. nel 1957 ( 1 ) situazionismo è un Vocabolo privo di senso, abusivamente derivato dal termine precedente. Non esiste situazionismo, in quanto significherebbe una dottrina interpretativa degli accadimenti. Esso è evidentemente coniato da antisi- tuazionisti. Usiamo questo termine per maggiore comprensione, scusandocene con chi lo ritenga errato. Tornando ai beccamorti, certe ricostruzioni autoptiche effettuate dai più dotti e quotati “jornologi” di professione - professionisti nel senso che vengono pagati per vivisezionare Asger Jorn, le sue opere, il suo contesto, e conseguentemente ciò che Jorn ha rappresentato nella storia dell’Arte - certe ricostruzioni autoptiche dicevo, sono anche puntuali, precise, ricche di informazioni ben incasellate tra loro. Essi arrivano al punto di dichiarare, ad esempio, che entrando in Casa Jorn ad Albisola - l’opera più grande dell’artista danese - la cifra è lo stupore. Gli Jornologi professionisti arrivano finanche al punto di collegare questo sentimento al concetto situazionista di deriva , arrivano finanche a dire che il lavoro di Jorn è istintivo, in progressione, che non c’è uno schema prefissato ma il tentativo di comprendere , rappresentare e quindi condividere un grumo emotivo che man mano viene fuori. Essi compiono analisi con puntuale precisione, descrivendo ad esempio le modalità con cui Jorn lavorava, ovvero l’assoluta libertà espressiva; purtroppo sembrano non comprendere. Essi arrivano a descrivere l’uso consapevole che Jorn fece di forme precise, come ad esempio le antiche figure apotropaiche poste appunto a protezione di un luogo ( in questo caso la Casa di Asger Jorn ad Albisola,) comprendono che esiste nell’Artista una consapevole evocazione archetipica, precisi riferimenti a culture remote, ad esempio nella figura del fanciullo presente in una delle Sale, ma non si pongono la questione di fondo, il problema dell’origine. La semplicità della forma viene in generale ricondotta all’Art Brut, a Dubuffet, ed è sostanzialmente corretto, ma gli Jornisti si fermano li. Non si pongono il problema del perché Jorn abbia sentito l’esigenza di rendere semplice, o meglio essenziale ed istintivo, il proprio linguaggio estetico . La consapevolezza della connessione profonda di Asger Jorn ( non a caso ribattezzato da Baj il Vichingo…) con le proprie radici culturali e popolari resta sullo sfondo anche quando le riflessioni si fanno più approfondite, come nel caso del testo “Per Jorn” di Mirella Bandini ( Ocra Press 2014 pag. 33/34 ). Dice di Jorn Mirella Bandini “Di formazione surrealista, nella diaspora del pensiero bretoniano avvenuta negli anni Trenta in Europa, poté giovanissimo assimilarne il pensiero rivoluzionario attraverso due vie: la vicinanza con il gruppo Linien danese (V. Bjerke- Petersen, H. Heerup, G. Munch-Petersen) e il soggiorno a Parigi nel 1936-37, dove ha studiato nell'atelier di Fernand Léger. Con i pittori danesi Euler Bille e Egill Jacobsen, scopre nella capitale francese il Musée de l'Homme recentemente aperto: nel '39 ne pubblica un'ampia relazione in un articolo, con l'architetto Dahlmann-Olsen, su una rivista di Copenhagen. Seguendo l'apertura surrealista a ventaglio sulle scienze umane, in questo periodo giovanile studia l'arte dei malati mentali (come Max Ernst e Dubuffet); si lega d'amicizia con antropologi francesi, con archeologi e psicanalisti danesi; inizia a studiare l'arte primitiva ( sic) danese dopo l'età del bronzo e l'epoca dei Vichinghi in rapporto all'arte primitiva ( sic ) mondiale; e nel contempo a riflettere sulle relazioni fra gli impulsi dell'uomo primitivo ( sic) e la cultura occidentale moderna. Da qui la sua successiva posizione di difesa delle valenze simboliche e allegoriche dell'opera d'arte, in opposizione alla semiotica strutturalista.” E’ acclarato il fatto che chi studia le caratteristiche delle magmatiche esperienze artistiche attraversate da Jorn e dai suoi amici, incappi sistematicamente in tradizioni culturali extraeuropee. E’ addirittura superfluo ricordare il debito che Cubismo e Surrealismo contrassero con l’arte Africana ed Oceanica; il gruppo Linien, attivo in Danimarca tra gli anni trenta e quaranta del secolo scorso, nacque concentrandosi sui concetti di astrazione e simbolismo. Jorn vi aderì, colpito dalla libertà compositiva di Ejer Bille, attento osservatore dei linguaggi dell’arte Oceanica. Un comune sentire legato a quella esperienza sarà all’origine della sua amicizia con Enrico Baj, a cui si deve l’arrivo di Jorn in Italia. Ed Enrico Baj fu, per un periodo breve ma intenso, accanito collezionista di opere d’arte tradizionale Africana: se osservate la tecnica e il linguaggio estetico dei suoi Generali troverete nell’uso del colore, e di oggetti “altri”, la eco di culture lontane; Potlatch, dal 1954 al 1957 Bollettino di informazione del gruppo francese dell'Internazionale Lettrista, deve il suo nome ad una pratica rituale in uso presso popolazioni native Americane della costa nord occidentale del Pacifico, degli Stati Uniti e del Canada per le quali “ un personaggio di prestigio offre doni in abbondanza ai membri del suo gruppo, distribuendo i beni secondo un criterio di proporzionalità commisurato al rango sociale. La pratica di distribuzione e consegna dei doni avviene secondo un cerimoniale ben preciso, trasmesso di generazione in generazione, e spesso il complesso rituale consiste nel momento in cui vengono tramandati racconti tradizionali. La cerimonia si svolge presso il villaggio della persona di maggior prestigio, che invita presso di sé anche i membri degli altri villaggi, generando così un complesso meccanismo di reciproco riconoscimento di prerogative e prestigio, tale da determinare un’articolata consuetudine la cui violazione sarebbe interpretata come offesa. Il potlatch è anche una occasione di consumo catartico, finalizzato all’affermazione del prestigio personale, e può giungere a forme particolarmente esasperate come la distruzione di propri beni di fronte agli occhi degli altri capi villaggio, in modo da riaffermare prestigio e potere sugli altri. “( Rino Canfora, sociologicamente.it ). Circa il dono, ricordo anche un complesso rito chiamato Cerchio Kula , in uso presso le popolazioni della Provincia di Mine Bay ,PNG. In questo caso è il valore simbolico del gesto e non la preziosità intrinseca di ciò che si dona a fare la differenza; non è un caso che già il padre dell’antropologia moderna, Bronisław Malinowski, nel 1922, si chiedesse “Perché quegli uomini dovrebbero rischiare la vita e gli arti per viaggiare attraverso enormi distese di oceani pericolosi per regalare quelli che sembrano essere ninnoli senza valore?”. I doni Kula non sono particolarmente preziosi in se, il valore è conferito dal gesto, l’oggetto funziona da “facilitatore” nelle relazioni sociali non per il suo valore intrinseco ma appunto per il sistema di relazioni che testimonia.  I bracciali di conchiglia bianca o Mwali sono dati con la mano destra, mentre le collane a disco di conchiglia rosse o Soulava sono date con la mano sinistra. Il termine Kula deriva da bita kuli, che significa “formarsi a somiglianza o immagine di un altro” e specificamente  “formarsi a somiglianza o immagine dell’altro” con cui si interagisce nello specifico. E’ a questa reciprocità a cui faceva riferimento  Malinowski. Si dice che  Kula dovrebbe essere “come un matrimonio”, “È un movimento, un atto di dare e avere tra le persone, due persone (partner) per cominciare. Questa azione si traduce nella crescita dei partecipanti”. Resta da approfondire l’attribuzione di valore simbolico ai materiali ( le conchiglie, non a caso usate in molti continenti come monete di scambio), e al colore. Si potrebbe dire che in quelle culture ciò che “quantifica” è la qualità e non viceversa. Che i movimenti artistici del Novecento, spesso caratterizzati da una radicale critica dei concetti di proprietà e di possesso, abbiano guardato a culture lontane non è quindi un caso, come non è un caso che siano stati conquistati dalla bellezza libera e creativa di forme, colori e segni usati in quei linguaggi lontani. Viene spesso registrato il valore significante nella formazione di Jorn della scoperta del Musée de l'Homme , ovvero del luogo fisico dove finalmente si poteva interagire in modo diretto con i linguaggi delle arti extraeuropee - che alcuni Critici continuano a definire “primitive”! - si considera il rapporto con Fernand Léger , che come la quasi totalità di quella generazione di Artisti, fu intimamente segnato dalle implicazioni connesse all’irruzione nel mondo dell’arte di oggetti provenienti da continenti lontani, al punto di reinventare quelle forme ancestrali nelle scenografie per il balletto La création du monde già nel 1923, ma il fatto che Jorn ( e non solo lui, pensate a Pinot Gallizio) fosse un grande appassionato di archeologia viene registrato come riconducibile alla tendenza in voga tra gli artisti di quella generazione, e non come il fatto significante, la cifra del suo lavoro. Uso volutamente nel caso di Jorn ( e di Gallizio ) il termine appassionato di archeologia e non archeologo pensando alla citazione di Sofo già ricordata. Jorn fu profondamente colpito dalla potenza evocativa di ciò che emergeva dalla profondità del tempo, fino a trasformare quella energia vitale nella misura costante del proprio linguaggio estetico. Egli è stato tra i più interessanti osservatori dei linguaggi arcaici della sua terra, delle sue espressioni culturali ed estetiche. Essere “nordico” e “infantile” è stato il filo rosso della sua intera esistenza. Ritrovarne la traccia consente di rileggere il suo lavoro in una dimensione nuova. Nel 1957 scrive “ Guldhorn og Lykkehjul / Les Cornes d’Or et la Roue de la Fortune”, testi di cultura popolare, di etnologia e di rituale dei culti. Decifrando - per primo! - i Corni d'oro Danesi, Jorn teorizza l’universalità dei culti popolari e la loro sopravvivenza nei diversi miti. Michel Ragon, che ne curò la traduzione francese, così scrisse nell’introduzione alla edizione francese : “L'autore di questo straordinario saggio è un pittore danese. Ma dire che Asger Jorn è un pittore difficilmente corrisponde alla psicologia dell'artista scandinavo, da sempre anche poeta, e musicista, sociologo e archeologo come in questo caso … Sentirsi dire che si è qualcosa implica un'ineluttabile idea di fatalità da cui non si può più sfuggire. Asger Jorn è dunque il pittore, come è il sociologo, l'archeologo, il viaggiatore, lo scrittore, lo sperimentatore, l'architetto, il padre, l'amante, l’animatore di riviste sperimentali e gruppi di artisti, il cuoco, l'esteta, eccetera. .... In questo caso è archeologo e sociologo. I Golden Horns a cui si fa riferimento nel suo saggio sono stati rubati più di cento anni fa e presumibilmente convertiti in valuta forte. Non ne sono rimaste copie, solo il contorno dei disegni che le adornavano. Il ricordo di questo tesoro nazionale misteriosamente scomparso ha generato un'intera letteratura romantica… Asger Jorn si è impegnato, partendo dai disegni che adornano questi Golden Horns, in un gioco più serio. Quello di ritrovare, attraverso questi segni grafici, gli elementi che gli hanno permesso di dimostrare la dimensione planetaria dei culti popolari e la loro sopravvivenza nei vari miti che si riconducono tutti a fenomeni di identica origine cultuale.” L’attenzione verso le proprie origini si traduce in una costante, corposa, interessante ed originale produzione letteraria poco nota ai nostri Jornologi; nel 1964 e 1965 Jorn visitò i Musei di Helsinki e Oulu in Finlandia, Lulea in Svezia, Tromso e Oslo in Norvegia e nel National Museum of Denmark in Copenhagen con l’amico fotografo Gerald Franceschi e scelse personalmente centinaia di opere da fotografare definendone ogni particolare per lo scatto fotografico. Nacquero cosi tra gli altri i testi Men, Gods and Masks in the Nordic Iron Age Art. 10000 Years of Nordic Folk Art, vol.1 Bird, Beast and Man in Nordic Iron Age. 10000 Years of Nordic Folk Art - Nordic Iron Age Art, Volume 2. - Nordic Iron Age Art, Folk Art in Greenland. Ten Thousand Years of Folk Art in the North, e Sami Folk Art. Ten Thousand Years of Folk Art in the North. Il progetto editoriale di Jorn prevedeva una serie di 32 volumi sull'arte popolare nordica nell'arco di 10.000 anni. Sono pubblicazioni di riferimento per appassionati e studiosi di antropologia culturale e archeologia, anche per la qualità scientifica degli apparati critici, ma svelano la natura profonda di Asger Jorn più di tante parole; egli approfondisce le diverse culture arcaiche a cui sente di appartenere, le interiorizza e le condivide usando immagini e non parole. Eppure la sua abilità nell’uso fluente del linguaggio teoretico è nota . Nella narrazione delle proprie radici egli sceglie però le immagini. Cura ogni scatto, ogni sequenza, l’impaginazione, in modo che siano le immagini a parlare ed a slatentizzare lo spirito profondo di quei popoli, che sente così vicini ed attuali, proprio perché quelle immagini evocano in lui stati di coscienza, evidenze archetipiche che Jorn non vuole ignorare, consapevole del fatto che esse danno corpo e consapevolezza , e conseguentemente senso, al bisogno di esprimersi attraverso l’arte. Nella presentazione di Folk Art in Greenland. Ten Thousand Years of Folk Art in the North. 10000 Years of Nordic Folk Art. si nota : “Attraverso la sua scelta di 250 oggetti Asger Jörn ha dato una visione completamente nuova di un millennio di storia culturale della Groenlandia. Gli oggetti più antichi risalgono al 900 circa e i più recenti agli anni '60. Le fotografie sono state scattate nel 1964-65 prima che la produzione dei Souvenirs si affermasse realmente, anche se, negli oggetti più recenti, si intravede un inizio di produzione in serie. Con la sua scelta degli oggetti, Jörn presenta una comprensione artistica raramente vista dell'interazione tra il cacciatore, la natura e l'animale cacciato, senza riguardo per i contesti nel tempo o nello spazio”. Si tratta di “ tornare sempre al punto di partenza, perché è al punto di partenza che si crea “ (Francesco De Bartolomei , Asger Jorn e l’arte come inadattamento . Rivista di Filosofia n. 2 1962). Il Vichingo è andato ben oltre. Scavando nel profondo della memoria visiva della sua terra, evocando archetipi comuni all’umanità in ogni tempo e luogo, Jorn ha creato un proprio alfabeto metaforico composto da forma, colore, segno, condivisibile ed attuale al punto da essere stato ripreso e condiviso da artisti contemporanei come il noto studio di animazione svedese Djurberg & Berg. I mondi visivi di Jorn e Djurberg & Berg si sono intrecciati in un evento documentato nel catalogo “ Nathalie Djurberg & Hans Berg / Asger Jorn: Mondjäger “ ( letteralmente Cacciatore di luna ) del 2019 . Si legge nella presentazione: “ Figure ibride uomo-animale sono attorcigliate in bizzarre contorsioni, i loro corpi espressamente distorti si avvicinano l'uno all'altro o si intrecciano. Anche se sono separati da generazioni e media, il famoso pittore d'avanguardia danese Asger Jorn e lo studio di animazione svedese Djurberg & Berg hanno molto in comune. Che si tratti di Jorn che pennella la vernice su una tela, o dei due artisti multimediali che danno vita a figure di argilla con la tecnologia stop-motion, l’animalesco è uno dei loro mezzi di espressione e le verità postulate diventano sfocate. In questo contesto, queste creature significano adattabilità permanente e trasformativa. Sottolineano fenomeni del nostro mondo che non possono essere razionalizzati: desiderio, libertà, follia, impulsi: l'infinita ricchezza di emozioni addomesticate assume qui forma immaginativa. Questo catalogo unisce i mondi visivi di Jorn e Djurberg & Berg per mostrare le differenze e i punti in comune del loro lavoro come costante dell'esistenza umana.” Non si tratta solo di eventi che testimoniano la possibile coesistenza di esperienze artistiche lontane tra loro. Sono dialoghi, resi possibili perché posti in essere partendo da un alfabeto comune, l’alfabeto delle immagini. Forma, materia, segno, colore, lo stesso suono ne sono gli elementi, confusi un una virtuosa esperienza sinestetica destinata ad agire nel profondo, per sciogliere grumi emotivi, comprenderne il senso e farne memoria . Aggiungo una riflessione: i protagonisti più interessanti di quella stagione formidabile crearono bellezza. Bellezza non era un termine molto usato in quegli anni; gli ambienti culturali più significativi, innamorati, ed a volte infatuati da una pulsione rivoluzionaria più teorizzata che praticata, consideravano la bellezza elemento precipuo delle “mollezze del tardo capitalismo”, associata come è alla dimensione della spiritualità; ci vollero anni per rileggere in modo sereno Guenon, Mircea Eliade, per liberare il pensiero di Ezra Pound o addirittura di Nietszche dal recinto del pensiero totalitario della destra. Eppure il problema estetico è dibattuto fin dagli albori della rivoluzione industriale : L’analisi della rottura storica con il mondo antico rappresentata dal cristianesimo, viene però circoscritta già da Hegel nella riduzione del mondo antico a quello grecità classica, considerata come la massima incarnazione di quella sintesi armonica tra “ideale” e “sensibile”, ossia tra “spirito” e “natura”. Non c’è spazio per il “prima”, e nemmeno per “l’altro”, considerato “primitivo” o semplicemente ignorato. La linea della storia è intesa come storia di comunità e non di insiemi di persone che fanno comunità, come se l’insieme non fosse composto e determinato da individualità. Essere e conoscere prendono strade diverse, ed essendo la bellezza intimamente congiunta all’essere finì per diventare elemento considerato decadente. Non bastò nemmeno il pensiero del Partigiano Comunista Albert Camus : La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei.“ (L'uomo in rivolta). Mancava la profondità di campo della Storia profonda, quella da far risalire all’unica, grande rivoluzione degli ultimi diecimila anni, la rivoluzione Neolitica, che ha preceduto quella odierna ( la rivoluzione digitale ). Furono coraggiosi visionari come Jorn a riproporre la centralità della memoria ancestrale, archetipale, e la sua funzione sempre attuale perché propulsiva e sovversiva di ogni sistema sociale che si adagi sulla quiete oscena garantita dalla dittatura della mediocrità. Ecco l’altra dimensione del lavoro di Jorn, a cui personalmente devo molto. Ebbi il privilegio di curare gli eventi della Casa Museo Jorn ad Albisola dalla sua riapertura nel 2004 ( dopo vent’anni di chiusura) fino al 2008. Curiosamente quegli anni sono oggetto di una sorta di damnatio memoriae tuttora in vigore, nonostante l’oggettiva imponenza delle opere che riuscii ad esporre, prevalentemente grazie alla disponibilità dell’amico Alessandro Passarè: Burri, Carrà, Fontana, Lam, Matta, Picasso.. e molti altri, sempre proposti come protagonisti di un dialogo costante con opere d’arte tradizionale africane, oceaniche, indonesiane dello stesso livello qualitativo, e mai viste da queste parti… Con una mostra inedita di disegni di Pinot Gallizio celebrammo i cinquanta anni di I.S, con il Prof. Emanuel Anati parlammo del valore archetipale delle incisioni rupestri, con il Prof. Roberto Maggi raccontammo il sito allora pressoché sconosciuto di Gobekli Tepe, Pierre Amrouche venne a parlarci di Arte Africana, la grande ceramica di Emilio Scanavino “Le uova mai schiuse di Hiroshima” , realizzata nel 1969, segnò il sessantesimo anniversario della tragedia atomica ed insieme evocò la stagione artistica di Calice Ligure; in eventi specifici esponemmo opere di Claudio Costa, Giuliano Galletta, Irina Ionesco, Antonio Sabatelli… molte, forse troppe iniziative caratterizzarono quel tempo, ma fu lo spirito del luogo, l’impronta che Jorn diede al suo Jardin d’Albisola ad amalgamare il tutto. Si potrebbe, si dovrebbe dire ancora molto su Casa Jorn. Mi limito a citare le parole di Guy Debord “ ciò che è dipinto e ciò che è scolpito, le scale mai eguali fra dislivelli del terreno, gli alberi, gli elementi aggiunti, una cisterna, la vigna, frantumi d'ogni sorta, sempre bene accetti, disposti nel più perfetto disordine, compongono uno dei paesaggi più complessi che si possano percorrere in una frazione d’ettaro, a dimostrazione di come ciascuno possa appropriarsi concretamente dello spazio, "ricostruendo attorno a sé la terra” - ( Jorn, Asger [Debord, Guy]. Le Jardin d’Albisola. Torino, Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, 1974 ). Forse, d’istinto, in quegli anni passati nel Giardino di Albisola praticammo l’intero glossario situazionista.. Abbiamo posto in essere lo spiazzamento di elementi estetici prefabbricati, l’integrazione di prodotti artistici attuali o passati in una costruzione superiore del l’ambiente ( detournement, ), ci siamo posti il problema degli effetti esatti dell'ambiente geografico, coscientemente trasformati o no, direttamente attivi sul comportamento emotivo individuale ( psicogeografia ) , abbiamo teorizzato e praticato un uso globale delle arti e della tecnica per la costruzione integrale di un ambiente, in rapporto dinamico con esperienze comportamentali ( urbanismo unitario ), sopratutto, abbiamo - volontariamente!-spesso smarrito l’orientamento, passando improvvisamente attraverso atmosfere ambientali diverse, per vagare senza meta e scopo, al fine di abituarci ad un'apertura mentale verso nuovi, inattesi e magari anche estranianti aspetti della realtà che abitiamo . La sperimentazione estetica è diventata quindi l'occasione per una trasformazione, anche politica, che ci ha dotato di una nuova consapevolezza ( deriva )…e continuiamo in questa direzione, ostinata e contraria, con le attività della Associazione SituAzioni Tribaliglobali grazie alla passione di Emilio, Simonetta, Mauro e dei tanti amici che credono in questa visione. In quegli anni, senza soluzione di continuità tra contenitore e contenuti, i linguaggi apparentemente lontani rappresentati da opere tradizionali africane, oceaniche, indonesiane, e quelli - apparentemente- più vicini dei grandi protagonisti del Novecento materializzarono quella “secreta, nascosta armonia”, di cui parla Massimo Cacciari riferendosi alla casa veneziana di Peggy Guggheneim ( Tribaleglobale, dalle Alpi nel Mare all’isola di Atlante , 2004) . L’altro mondo - quello “primitivo”, prese corpo e dignità, parlando di se stesso ci parlò di noi, delle nostre speranze e delle nostre paure. Il linguaggio universale dell’arte ci propose una riflessione su noi, altri, anzi noialtri… In gran parte dipese dalla fortuna, aiutata dall’istinto così intensamente sollecitato dal genius loci che abita Casa Jorn. ( Nemmeno il dominio della dittatura della mediocrità riesce a scalfire la bellezza naturale e sovversiva di quel luogo! ).Nel 2004 la consapevolezza di quale fosse la relazione profonda, addirittura fisica, tra l’immagine e l’arte era materia poco nota : i neuroni specchio , scoperti nel 1992 erano ancora parte di un puzzle appena iniziato, la neuro estetica iniziò ad essere conosciuta nel 1999 con studio “Arte e cervello” del neuro biologo Semir Zeki, le implicazioni legate al fenomeno della pareidolia (2), scoperto nel 2014 sono ancora tutte da indagare. E’ del 2000 la pubblicazione di “Quarantamila anni di Arte contemporanea”, il testo suggestivo e profetico scritto dal Prof. Emanuel Anati che pose lo studio delle incisioni rupestri in una nuova , attualissima dimensione. Non a caso in quello spazio, in Casa Jorn, organizzammo missioni archeologiche nel deserto del Negev e sui siti della Mezzaluna fertile, attività che nel tempo sono sedimentate e che durano tuttora. Oggi la consapevolezza di pensare immagini, e non parole, esce sempre più dalla spazio della suggestione filosofica e diventa realtà neuro scientifica, con tutte le implicazioni del caso sopratutto rispetto ai linguaggi dell’arte. Quando sono incardinati su evidenze archetipali, essi sono destinati ad evocare stati di coscienza connessi a temi esistenziali che non cambiano nel tempo e nei luoghi: odio, amore, morte, vita, paura, speranza, pongono domande per le quali ogni essere umano cerca risposte nel profondo di se, con l’aiuto della propria esperienza personale e collettiva, cioè della sue radici. Ci sono persone che hanno il dono di riuscire a trasmettere agli altri la potente intensità di questo cammino esistenziale grazie a forme espressive come la parola, la musica, la pittura, la scultura o altri nuovi ed intriganti media. E’ questo lo sguardo che rompe il processo di mummificazione dell’arte, la rende viva. Lo sguardo di Asger Jorn. E’ certo però che bisogna sapere vedere, bisogna volere vedere la favola della materia e non le sabbie della maniera, considerare l’arte un dono che va condiviso e non una merce da cui trarre profitto. E non è ne scontato ne facile. Note La grande parte delle informazioni circa Asger Jorn è dovuta al grande lavoro di ricerca svolto da Sandro Ricaldone, testimoniato nelle sue pubblicazioni. 1) Da “ Dèfinitios”, in “Internationale Situationniste “ n.1, Paris, giungo 1958 in “L’estetico e il politico” Mirella Mandini 1977, pag.376 2) pareidolia, s. f. [comp. di para-2 e gr. εἴδωλον «immagine»]. – Processo psichico consistente nella elaborazione fantastica di percezioni reali incomplete, non spiegabile con sentimenti o processi associativi, che porta a immagini illusorie dotate di una nitidezza materiale (per es., l’illusione che si ha, guardando le nuvole, di vedervi montagne coperte di neve, battaglie, ecc.). Fonte Treccani. Onzo, 25 agosto 2023 Comunicazione tenuta durante le Giornate Situazioniste di Cosio d'Arroscia

Commenti

Giuliano Arnaldi ha detto…
Ho ricevutoquesto commento da Giorgio Amico, e volentieri pubblico
“Debord in una polemica mascherata ma che spiega la successiva rottura con Simondo, rifiuta il termine situazionismo perché quell' "ismo" congela in una ideologia statica un pensiero vivo in quanto pensiero critico. Non rifiuta il termine "situazionisti" identificativo di coloro che sanno cogliere le situazioni cioè le occasioni di trasformare la banalità e la mediocrità della vita quotidiana in occasioni di critica rivoluzionaria del presente. Potlach è il richiamo alla totale gratuità del gesto artistico di contro alla mercificazione operata dai galleristi. Su questo terreno si pone Jorn, richiamandosi al vandalismo cioè a un momento della cultura dove come in tutte le culture primarie l'arte è momento della vita e non realtà separata di un individuo. Da qui l'anonimato e il rapporto diretto con il sacro. Il gesto artistico diventa parte del rito religioso e si carica di valenza estatiche oltre che estetiche. La bellezza diventa partecipazione alla armonia cosmica, comunione con il numinoso. Eviterei il richiamo a. Evola che riprende i temi di Guenon ma in chiave razzista, aderendo formalmente alle SS e impegnandosi nel progetto di ricerca sulle radici del complotto ebraico visto come emersione nel mondo del demoniaco.”

Commento di Giorgio Amico, 13 settembre 2023

Post popolari in questo blog

La dittatura della mediocrità : Onzo è uno specchio...

Olio su tela , XVII secolo, cm 74 x 78 circa. Mi rendo conto di mettere a dura prova la pazienza di chi pensasse di leggere questo articolo, ma la vita non si risolve in un tweet..Se avrete la pazienza di leggere l’intervento che segue, che abbiamo presentato durante l’ultimo Consiglio Comunale di Onzo, troverete connessioni ben più grandi. Rifiuti, siccità, abusi di potere… l’aspetto sorprendente é che siamo arrivati al punto in cui non basta più nemmeno una pubblica denuncia presentata in una sede così importante come un Consiglio Comunale, la descrizione di uno scenario che parte dal falso in atto pubblico, dall’interesse privato in atti d’ufficio per denunciare un contesto più ampio che riguarda l’opacità del sistema di connessione tra politici e mondo dello smaltimento dei rifiuti ( e non solo ). Nonostante siano fatti noti, che io li dichiari pubblicamente da anni assumendomene la responsabilità, nonostante diversi Esposti a due Procure della Repubblica ( tuttora in esse

il valore dello scudo / the value of the shield

Il vero eroe non è l'individuo votato a grandi imprese, bensì chi è riuscito − attraverso le piccole cose − a costruirsi uno scudo fatto di lealtà.Paulo Coelho, Il manoscritto ritrovato ad Accra, 201 2 La foto riproduce uno scudo rituale della cultura KATU ( Vietnam, Laos ) Anche in questo caso le opere d’arte ci ricordano che i confini delle culture non sono tirati con il righello dei colonialisti, ma plasmati da un complesso sistema di fattori geografici, storici ed economici che formano i popoli e le loro tradizioni. Ci ricordano che sono permeabili, reciprocamente influenzati dagli usi e dai costumi delle persone che li abitano; luoghi di incontro, e non necessariamente di scontro. Ci ricordano anche come l’uso delle parole non è asettico, ma potenzialmente propagatore di pregiudizi e discriminazione. Questo scudo cerimoniale è abitualmente attribuito ad un popolo vietnamita chiamato Moi; già l’uso di questo termine è ambiguo e in parte irrispettoso. Infatti i diverso