Vi propongo tre immagini: Ri/traggono tutte Tommaso Inghirami, detto Fedra, raffinato intellettuale vissuto tra la fine del XIV e l’inizio del XVI secolo. Due di queste immagini ri/producono dipinti ad olio su tavola. Nel terzo l’immagine è ri/prodotta ad olio su tela. Le due tavole sono coeve al tempo in cui visse il soggetto ritratto; uno pur essendo antico è presumibilmente più tardo. Una delle tavole è universalmente attribuita alla mano di Raffaello, l’altra tavola è pur essa attribuita al grande protagonista del Rinascimento - seppure con qualche perplessità; la tela non ha - ancora- un autore.
Una delle tavole è alla Galleria Palatina di Firenze, l’altra a Boston presso l’Isabella Stewart Gardner Museum. Il dipinto è alla Casa degli Artisti a Onzo.
Come valutare le differenze?
Già il verbo che ho usato porta nel mondo dell’incertezza.
La prima definizione data da treccani.it è “s. f. [der. di valutare]. – 1. a. Determinazione del valore di un bene ragguagliato in moneta” . Dunque usando questo verbo d’istinto quantifichiamo più che qualificare…how much money…? Di fatto l’arte non è solo mercificata, ma è merce da millenni. Mi piace però considerala un bug, forse un virus del sistema capitalistico …non si riesce mai a codificarla in modo blindato..Ricordo lo spasso dei falsi Modigliani livornesi , e sopratutto la favola “i Vestiti nuovi dell’Imperatore” ..quindi non parlerò di valore economico, proverò a qualificare. Naturalmente l’uso degli strumenti che le conoscenze scientifiche ci offrono è utile e indispensabile sopratutto per definire l’epoca di un’opera, così come la conoscenza delle tecniche pittoriche dei grandi artisti aiuta a formulare una attribuzione ragionevolmente certa. Credo che il termine ragionevole sia opportuno ad esempio perché i grandi artisti avevano botteghe affollate di bravi pittori che interagivano nella realizzazione di un’opera, ed è difficile stabilire se un particolare “debole” sia da imputare ad una mano diversa o ad una “giornata no” che tutti posso avere, anche un grande Maestro.
Tornando alle opere ed alla analisi delle differenze, provo a scegliere il verbo adeguato.
Il verbo è parte fondamentale di una discorso - e quindi di una comunicazione- : collega le altre parole, indica una azione. Usare il verbo VEDERE, che deriva dal latino “videre” ed indica il percepire con gli occhi, cogliere con la facoltà della vista, limiterebbe il mio campo alla superficie visibile dell’opera. Farei ancora peggio se usassi GUARDARE , che deriva dal frascame “wardon”, stare in guardia, e definisce una funzione di difesa.
Userò OSSERVARE. Il verbo ha radici latine è composto dal prefisso “ob-“ e “servare” che significa custodire, considerare. Richiede attenzione, consapevolezza coinvolgimento attivo e diretto.
Quindi, come osservare le differenze?
O forse la domanda giusta è: perché osservare le differenze? A cosa serve?
Perché osservare le fattezze e i gesti di un signore vissuto più di cinquecento anni fa?
Possiamo indagarne la vita e la storia, forse potrà esserci utile…Quella di Tommaso Inghirami la trovate in questa nota ( 1 ) . Non mi sembra il principale motivo: è un soggetto casuale. Certo Raffaello avrà avuto ottimi motivi personali e concreti per scegliere quel soggetto, ma dopo cinquecento anni non mi pare emergano dall’opera.
Quindi, a cosa serve?
“e io dico che la vita è davvero oscurità se non c'è slancio,
e ogni slancio è cieco se non c'è conoscenza,
e ogni conoscenza è vana se non c'è attività
e ogni attività è vuota se non c'è amore; “
( Kahlil Gibran, il Profeta)
Ma partiamo dal perché, ovvero dall’avverbio interrogativo e congiuntivo che esprime rapporti di causa o di fine. E il discorso riguarda ovviamente ogni opera d’arte.
Perché osservo un’opera d’arte? Anzi, perché scelgo di osservare un’opera d’arte?
Certamente perché abbiamo bisogno della bellezza come del pane...“Il pane e le rose” diceva Rosa Luxemburg. L’arte non descrive, evoca stati di coscienza ...l’esperienza artistica genera un moto di stupore che commuove e sommuove , e libera dalle incrostazioni lo splendore del vero. L’essenza archetipica di alcune opere d’arte le affida ad una attualità perenne; per il modo in cui sono realizzate, per alcuni particolari tecnici o di soggetto o altro- esse restano impresse nella memoria profonda di ciascuno evocando una sorta di ri/conoscenza che è già presente nell'interlocutore .
Con Michelangelo si può dire..lo Splendore del Vero.
Giuliano Arnaldi , Onzo 8 Aprile 2020
Il Fedra di Onzo..
Ritratto di Fedra Ingarami, olio su tela cm 83 x 62 . XVIII secolo, da Raffaello
Proveniente da un’Asta Pubblica, l’opera è ispirata al noto dipinto di Raffaello presente in due copie diverse entrambe attribuite al Maestro.
L’aspetto interessante della nostra copia, oltre che alla evidente buona fattura, è un impianto volutamente diverso dell’opera. L’inquadratura è ravvicinata, e il soggetto viene rappresentato in modo che risulta più sofferto per via delle barba insorgente. Pare che l’Artista, oltre che non temere il confronto con Raffaello nella impeccabile realizzazione della parte più potente dell’opera - lo sguardo - e nella definizione di alcuni particolari - l’anello, il leggio e altri - abbia voluto rendere ulteriore omaggio citando il modo in cui Raffaello scelse di dipingere il viso di Leone X nel noto dipinto, ovvero con un accenno di barba non rasata di fresco. E’ come se l’Autore della nostra copia volesse dirci : non copio, ma mi ispiro ad un capolavoro reinterpretandolo in modo tanto discreto quanto qualificato anche sul piano tecnico.
Questi aspetti, oltre a dare valore all’opera, consentono di iniziare un percorso finalizzato alla individuazione dell’Autore della stessa.
1) INGHIRAMI, Tommaso, detto Fedra. - Nacque a Volterra negli ultimi mesi del 1470 da Paolo di Antonio, di una ricca famigliaali, diplomatici imperiali e spagnoli (De obitu Iohannis Hispaniae principis oratio, ibid., 1498, unica altra orazione a stampa vivente l'Inghirami). Dinanzi a papa Giulio II l'I. pronunciò un'orazione In laudem Ferdinandi Hispaniarum regis Catholici ob Bugiae Regnum in Africa captum (1510; in Anecdota litteraria ex mss. codicibus eruta, a cura di P.L. Galletti, Roma 1773, II, pp. 129-162).
1) INGHIRAMI, Tommaso, detto Fedra. - Nacque a Volterra negli ultimi mesi del 1470 da Paolo di Antonio, di una ricca famigliaali, diplomatici imperiali e spagnoli (De obitu Iohannis Hispaniae principis oratio, ibid., 1498, unica altra orazione a stampa vivente l'Inghirami). Dinanzi a papa Giulio II l'I. pronunciò un'orazione In laudem Ferdinandi Hispaniarum regis Catholici ob Bugiae Regnum in Africa captum (1510; in Anecdota litteraria ex mss. codicibus eruta, a cura di P.L. Galletti, Roma 1773, II, pp. 129-162).
Nel contempo si andavano stringendo i legami dell'I. con letterati di spicco dell'intellettualità romana (tra di essi, oltre ai volterrani Raffaele e Mario Maffei, al quale fu maggiormente legato, Camillo Porzio), in riunioni che in seguito si sarebbero svolte anche negli "orti di Fedra", ovvero nella sua vigna sul Palatino (è altresì attestata la residenza dell'I. nel rione Regola, nei pressi di via Giulia, cfr. Burckard, II, p. 444 n. 3). L'I. e Porzio saranno anche ricordati nella lettera del Sadoleto al Colocci da Carpentras del 1529, mentre dei doni galanti offerti dall'I., Sadoleto e Capella alla cortigiana Imperia, parla un epigramma di Filippo Beroaldo il Giovane.
Nel 1498 era venuto a mancare Pomponio Leto, al cui insegnamento di retorica nell'Accademia Romana l'I. subentrò raccogliendone l'eredità, secondo quanto suffragato dal dialogo di Pietro Bembo De Virgilii Culice et Terentii fabulis liber, composto nel 1503 e ambientato negli ultimi anni di vita di Ermolao Barbaro (1490-93), ove l'I. figura come colui che avrebbe riferito al Bembo i colloqui avvenuti fra i due grandi maestri, dunque emblematicamente rappresentando l'anello di congiunzione fra le due generazioni dell'umanesimo romano tra Quattro e Cinquecento. Per la venuta a Roma del Barbaro quale oratore della Serenissima nel 1491 l'I. aveva del resto già composto un carme In adventu Hermolai Barbari (edito in Pescetti, 1932, pp. 75-77).
Rilevanti sono gli scambi intercorsi tra l'I. e il Bembo, in procinto di trasferirsi a Roma: il 17 ott. 1502 il Bembo da Venezia chiede all'I. il codice di Plauto con le correzioni di Poggio, mentre fa riferimento alla copia di Terenzio da lui tratta per l'I.; in due lettere da Urbino del 1507 accosta l'I. al Sadoleto e al Porzio; ancora, lo menziona accanto al Navagero e allo Strozzi nel carme Ad Sempronium, databile al 1502-03, mentre nella revisione il Bembo avrebbe sostituito al nome dell'I. quello di J. Sannazzaro. Un rapporto legato anche ai non trascurabili interessi filologici dell'I., documentati da cospicui testimoni: il codice di commedie plautine su cui trascrisse le correzioni di Poggio e riportò proprie congetture (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. plut., 36.36); un codice di Sallustio (Vat. lat., 10679); un codice, anch'esso postillato, dell'Apocolocyntosis (Vat. lat., 4498); un ampio commento, probabilmente legato all'attività didattica, In Poeticam Horatii (Vat. lat., 2742).
Lo stesso insegnamento di retorica nell'Accademia non doveva andare dissociato dalla costante attenzione alle pratiche teatrali, giusta il legato del magistero pomponiano, se in un dispaccio del 27 marzo 1501 Matteo Canale, agente a Roma del duca di Ferrara, informava che il re di Napoli "ha invitato Fedria comico cum la sua schola per rapresentare comedie et egloghe ale noze de la Regina iovene et Duca di Calabria" (ove "schola" sarà da riferirsi non a una stabile compagnia teatrale, ma agli allievi dell'Accademia). Non è attestata invece la sua presenza alle più celebri nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso II d'Este del 17 dic. 1501, per le quali egli compose tuttavia un Epitalamium di imitazione catulliana (edito in Pescetti, 1932, pp. 77-83).
Nel gennaio 1503, ancora sotto il pontificato di Alessandro VI, l'I. fu nominato canonico lateranense, quindi partecipò ai conclavi per l'elezione di Pio III e di Giulio II, al seguito del cardinale Ludovico Podocataro. Nel marzo del 1504 Giulio II nominò l'I. segretario del Sacro Collegio e ai Brevi "ad principes". Il venerdì santo (5 aprile) di quell'anno pronunciò nella cappella Sistina, al cospetto di Giulio II e del Collegio dei cardinali, l'orazione De morte Christi Domini Deique nostri deque eius tormentis (nel ms. autografo 7352.B della Bibliothèque nationale di Parigi; orazione a torto identificata con il discorso sulla Passione di Cristo ascoltato nel 1509 da Erasmo, che sarebbe stato all'origine polemica del Ciceronianus). Altre elaborate orazioni funebri vennero declamate dall'I. in questi anni, il 7 ott. 1504 a S. Maria del Popolo per il cardinale Ludovico Podocataro, il 1° marzo 1505 a S. Maria in Aracoeli, per il vescovo di Cesena Pietro Vicentino (edite in Anecdota litteraria…, I, pp. 289-333; III, pp. 191-244); il 5 nov. 1505, infine, pronunziò l'orazione funebre per il cardinale Ascanio Sforza, tediosamente protrattasi per oltre due ore.
L'astro dell'I. toccò dunque il suo culmine sotto il pontificato giuliano, se nel 1505 egli venne "praepositum" alla Biblioteca Vaticana (così in una lettera del 19 dic. 1505 di Scipione Forteguerri Carteromaco da Roma ad Aldo Manuzio a Venezia); divenendo ufficialmente prefetto, con breve del 17 luglio 1510, dopo la morte del predecessore Giuliano Maffei. Da Giulio II ottenne inoltre altri benefici minori, venne nominato prefetto dell'Archivio di Castel Sant'Angelo, quindi, nel gennaio 1508, ottenne un canonicato in S. Pietro (Roma, Biblioteca Angelica, Mss., 1589). Al pontificato di Giulio II, che in punto di morte avrebbe affidato all'I. l'orazione funebre, la Pro Iulio II pont. max. funebris oratio declamata in S. Pietro il 21 febbr. 1513 (edita in Orationes duae…, pp. 77-112), risalgono ancora l'orazione funebre per il nipote del papa Galeotto Franciotti Della Rovere, cardinale di S. Pietro in Vincoli, morto l'11 sett. 1508 (ibid., pp. 56-76) e il panegirico De recuperanda Bononia, per la riconquista papale di Bologna del 1507. Comunque tutte le testimonianze di questi anni documentano l'adesione ideologica incondizionata dell'I. all'azione del pontefice.
Del mai intermesso magistero "comico" dell'I. si ha ulteriore testimonianza nella partecipazione, nel novembre 1512, alla scena allegorica allestita nei giardini del Belvedere per la cerimonia rituale di incoronazione di Vincenzo Pimpinella e Francesco Maria Grapaldo, porgendo egli al papa le corone d'alloro per i poeti. Insieme con il primo, peraltro, l'I. era menzionato nei Nuptiali di Marco Antonio Altieri, che ricorda "el Blosio, Pimpinella, Phedra et Casanova" come giovani dediti alle muse; nel De poetis urbanis di Francesco Arsilli, invece, riferibile agli stessi anni, il nome di Fedra è abbinato a quello del poeta Fabio Vigili quali "maxima romani lumina gymnasii".
Le responsabilità di apparatore scenico furono particolarmente rilevanti nell'occasione delle feste romane del 13 e 14 sett. 1513 per il conferimento della cittadinanza a Giuliano e Lorenzo de' Medici da parte del nuovo pontefice Leone X, alla cui elezione, l'11 marzo di quell'anno, l'I. aveva presenziato in qualità di segretario del conclave. Mentre Camillo Porzio si occupò delle rappresentazioni allegoriche, l'I., "prefetto dei giochi", diresse la messinscena del Poenulus plautino tenuta sul Campidoglio il secondo giorno dei festeggiamenti e ispirata a criteri rappresentativi di fedeltà storica al teatro antico. Secondo Paride Grassi, egli fu ideatore dei quadri e secondo Paolo Palliolo pure autore di elegantissimi costumi "ad imitatione delli antiqui". Un evento festivo di straordinario successo, che Leone X volle si replicasse il 18 settembre nel palazzo apostolico, e di cui ancora nel 1527 Paolo Giovio nel De viris litteris illustribus avrebbe rievocato con nostalgia proprio la recita del Poenulus, poche pagine dopo aver esaltato il Porzio e l'I. quali "praeclara Academiae Romanae lumina" (l'I. sarebbe stato anche citato in testa alla "dotta compagnia" di Alessandro Farnese, precedendo il Porzio, il Capella e altri, nella rassegna ariostesca del Furioso, XLVI, 13, 3).
Per il carnevale nel 1514 l'I. curò il programma iconografico del corteo di diciotto carri per la festa di Agone, allegoricamente "ordinati" a raffigurare le virtù della rinascente età dell'oro, secondo quanto riferisce una nota dell'amico Evangelista Fausto Maddaleni de' Capodiferro (Vat. lat., 3351, c. 171v; il codice contiene inoltre poesie del Maddaleni all'I., cc. 44r, 59v, 64r; nonché una nota di prestito di otto libri greci chiesti dall'I., tra cui un "Platone ad stampa", e un "Terentio antiquo grande in pergamena", c. 188).
Nei primi mesi del pontificato mediceo l'influente posizione dell'I., che dall'aprile 1513 partecipò come segretario al concilio Lateranense, dovette pure avere un qualche peso nella concessione da parte della Repubblica di Firenze di privilegi ed esenzioni per Volterra (così in un decreto datato 5 ott. 1513), e ne recherebbe testimonianza una lunga orazione con annessa ode saffica di ringraziamento (nel ms. Ott. lat., 2413, cc. 96r-107v della Biblioteca apost. Vaticana), in origine scritta per Lorenzo de' Medici e poi rimaneggiata per Leone X, in cui l'I. esordiva celebrando la riconquistata libertà dei Volterrani.
Sempre agli anni della maturità, forse già in corrispondenza della nomina a prefetto della Vaticana nel 1510, si deve fare risalire il celebre ritratto di Raffaello (conservato in Palazzo Pitti a Firenze; l'altra versione, di attribuzione più controversa, presso il Gardner Museum di Boston). L'onore di così illustre raffigurazione dovrà indurre a rinvenirvi più che un semplice tributo da parte di Raffaello all'I., che non soltanto fu in rapporti con l'artista a partire dal 1510, ma forse vi collaborò come consulente per il programma iconografico delle Stanze. Tra le altre testimonianze iconografiche è da annoverare quella, non sicura, del personaggio in abito di antico oratore incluso da Raffaello nel cartone e nell'arazzo della Predica di s. Paolo all'Areopago (conservati rispettivamente al Victoria and Albert Museum di Londra e nella Pinacoteca Vaticana; figura identificata con l'I. da Küntzle, mentre Shearman vi ha riconosciuto Leone X). Ma certamente è l'I. l'uomo investito da un carro nei pressi dell'Arco di Tito, ritratto nell'anonima tavola votiva di S. Giovanni in Laterano, che appunto egli intese donare per essersi salvato da quell'incidente (secondo la didascalia "T. Phaedrus tanto periculo ereptus"). Queste raffigurazioni, in forme più idealizzate il ritratto raffaellesco, in versione più realistica l'ex voto, ci mostrano un uomo di pingue corporatura (aspetto caratterizzante la facies dell'I., stando anche agli epigrammi di Angelo Colocci Ad Leonem de Phedri corpulentia e In Phedrum corpulentum), dal vistoso strabismo divergente, con mani grasse e curate, recanti un libro o in atto di scrivere, secondo un'iconografia destinata a divenire emblematica del prelato umanista della Roma rinascimentale.
È in questi ultimi anni di vita, nel contesto del ciceronianismo ormai trionfante nella Roma di Leone X, che definitivamente rifulge la fama di chi Erasmo avrebbe rievocato anni dopo come "dictus sui seculi Cicero", colui che all'imitazione ciceroniana era stato fedele per tutta la sua carriera di oratore nonché di maestro di eloquenza presso lo Studium Urbis.
Non per caso a Phaedrus è intitolato il primo libro del De laudibus philosophiae di Iacopo Sadoleto, dove appunto l'I. è impegnato a difendere il primato della retorica contro la filosofia, nella conversazione ambientata nella villa suburbana di Iacopo Galli. Già nel trattatello In rhetoricam enarrationes (Ott. lat., 1485, cc. 1-32; una copia più tarda nel Vat. lat., 3370, cc. 181-200) l'I. aveva assunto in toto il modello ciceroniano sia nella prospettiva di una teoria retorica unificante, sia nei termini di un'esemplarità pedagogica e politica disponibile a essere assunta nelle pratiche oratorie istituzionali dell'umanesimo curiale. E appare significativo che la sua ultima orazione nota celebrasse proprio l'Arpinate, se la Laudatio M.T. Ciceronis destinata ai "viri doctissimi" dell'Accademia Romana (in D'Ascia, pp. 488-501) è da identificarsi con l'"Apologia Ciceronis in obtrectatores" che l'allievo Aulo Giano Parrasio diceva di aver ascoltato in casa dell'I., poco prima che questi si ammalasse di febbre.
Si tratta del "morbus anniversarius" di cui parla lo stesso I. in una lettera del 21 giugno 1516 al nipote Paolo, quando ormai la sua attività in Curia andava diradandosi (al 4 maggio risale l'ultima presenza al concilio Lateranense), e che l'avrebbe portato a morire il 5 sett. 1516.
Alle circostanze della morte riporta una notizia di Pierio Valeriano (G.P. Dalle Fosse) nel De infelicitate litteratorum circa l'incidente di cui l'I. fu vittima, allorché cadendo da una mula finì sotto le ruote di un carro trainato da bufali carico di sacchi di grano (ne reca memoria la tavola votiva in Laterano sopra citata, che tuttavia è da datarsi entro il 1508 poiché l'I. vi figura ancora in abito di canonico lateranense, facendo così escludere che l'incidente sia stato all'origine del decesso). Oltre agli epigrammi citati del Colocci, ne celebrò la morte un carme di Filippo Beroaldo il Giovane (che gli subentrò come prefetto alla Vaticana il 16 settembre), mentre fu forse Sadoleto a stilarne l'epitaffio.
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Fonte : treccani.it
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